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Non esiste un diritto a non nascere se non sani (inammissibilità della cd. “wrongful life action”)

(Cassazione Civile Sez. Un., sentenza 25767/2015)
http://www.cortedicassazione.it/cassazioneresources/resources/cms/documents/25767_12_2015.pdf

[En el campo de la responsabilidad médica por nacimiento no deseado, la Corte di Cassazione estableció los siguientes principios jurídicos: a) la madre tiene la carga de probar su voluntad de aborto, pero puede llevar esa carga por meras presunciones; b) el nacido con discapacidad no tiene derecho a actuar para el resarcimiento del daño de “vida equivocada”, ya que el ordenamiento juridico italiano no reconoce el “derecho a no nacer sino sano”].

Con la sentenza del 22 dicembre 2015, n. 26767, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione pongono fine a un contrasto giurisprudenziale che ha interessato l’ordinamento italiano soprattutto negli ultimi dieci anni, relativo alla cosiddetta “nascita indesiderata” ed al cosiddetto “diritto a non nascere se non sano” (quest’ultimo, a livello internazionale, è spesso conosciuto come “wrongful life claim”).
I casi che hanno dato origine a un vivace contrasto giurisprudenziale seguono tendenzialmente questo schema: si tratta di una richiesta risarcitoria, da parte di una coppia, nei confronti del medico (e/o della struttura sanitaria), ritenuto responsabile dei danni conseguenti alla nascita di un figlio disabile. Tale responsabilità sarebbe dovuta al fatto che il medico, pur non avendo causato direttamente la disabilità, non ha correttamente assolto il proprio obbligo informativo in relazione alla disabilità del feto o si è reso colpevole di non avere svolto una diagnosi corretta, reputando che il feto non presentasse anomalie. Dunque, egli avrebbe impedito alla madre di esercitare il proprio diritto di autodeterminazione, in quanto la donna aveva manifestato l’intenzione di interrompere la gravidanza, qualora il feto avesse presentato delle anomalie. Per questa ragione, la donna è legittimata a chiedere il risarcimento del danno (cd. wrongful birth action).
A questa pretesa risarcitoria si è tentato poi di affiancare quella dello stesso soggetto nato disabile, il quale lamenta il fatto stesso di dover vivere una vita disabile e, per questo motivo, ritiene responsabile il medico che ha rassicurato la madre sul fatto che il feto non avrebbe presentato anomalie. In breve: il nato disabile (in genere tramite i suoi rappresentanti legali, ossia i genitori) chiede di essere risarcito dal medico perché lo ha fatto nascere in quella particolare situazione, ossia disabile (cd. wrongful life action).
Così accade anche nel caso italiano in questione: i motivi contenuti nell’ordinanza di rinvio alle Sezioni Unite (ordinanza n. 3569) sono due. Il primo consiste nella richiesta di stabilire, nelle cause intentate per il risarcimento del danno da nascita indesiderata, a chi spetti l’onere della prova del danno sofferto; con il secondo si chiede alle Sezioni Unite di stabilire se il nato sia legittimato a chiedere il risarcimento per la nascita stessa, facendo valere il suo cosiddetto “diritto a non nascere”.
L’onere della prova che incombe sul danneggiato è particolarmente gravoso: infatti, la donna che ha partorito il bambino disabile deve dimostrare (i) la rilevante anomalia del nascituro; (ii) l’omessa o errata informazione da parte del medico circa il fatto che il feto fosse malformato; (iii) il grave pericolo della gravidanza per la propria salute psicofisica; (iv) il fatto che l’accertamento dell’esistenza di anomalie o malformazioni l’avrebbe indotta ad interrompere la gravidanza. In merito a quest’ultimo punto, in particolare, la madre è chiamata a provare il suo stato psicologico, la propria intenzione di abortire in presenza della disabilità del figlio: è chiaro come la prova sia particolarmente difficile.
Al riguardo, nell’ordinamento italiano si è registrato un contrasto giurisprudenziale: un primo orientamento (ad esempio, Cass. civ. n. 6735/2002; Cass. civ. n. 144889/2004; Cass. civ. n. 13/2010; Cass. civ. n. 15386/2011) fa riferimento al principio della regolarità causale, in base al quale è più facile che, scoprendo la presenza di gravi anomalie nel feto, una donna decida di interrompere la gravidanza, piuttosto che proseguirla. La gestante potrebbe allora semplicemente affermare, in giudizio, che si sarebbe avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza, se correttamente informata. Un accertamento più approfondito si renderebbe necessario solo nel caso in cui la controparte contestasse l’esistenza dei presupposti per interrompere la gravidanza (in particolare, la sussistenza di uno stato depressivo nella gestante). In tale ipotesi, infatti, non sarebbe sufficiente il semplice riferimento alle dichiarazioni della donna, ma si renderebbe necessario valutare la plausibilità di quanto affermato alla luce del criterio del “più probabile che non” (ossia: si dovrebbe valutare, in base ai dati della comune esperienza, quale sarebbe la scelta più probabile di una gestante che si trovasse in una situazione analoga a quella che si è verificata in concreto).
Al contrario, per un secondo orientamento (Cass. civ. n. 16754/2012; Cass. civ. n. 7269/2013; Cass. civ. n. 27528/2013, n. 27528 e Cass. civ. n. 12264/2014), affinché sia accordato il risarcimento è necessario che la donna abbia espresso una preventiva ed inequivocabile dichiarazione di volontà nell’interrompere la gravidanza in caso di malformazione del feto.
Nella sentenza n. 26767, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermano che la prova del fatto psichico (ossia l’intenzione di abortire della donna) grava in capo alla donna, la quale deve dimostrare sia che sussistano i presupposti di legge necessari per procedere all’interruzione della gravidanza, sia la propria volontà di avvalersi dell’interruzione di gravidanza in caso di anomalie nel feto, sia il danno subito a causa dell’impossibilità di esercitare il proprio diritto. Tuttavia, per le Sezioni Unite la prova può essere raggiunta anche attraverso “presunzioni semplici”, ossia tramite la prova di circostanze o di fatti dai quali si possa risalire all’esistenza di tale volontà. A questo proposito, le Sezioni Unite negano che l’accertamento delle malformazioni del feto determini automaticamente nella donna la volontà di abortire: è invece necessario che si abbia un concreto pericolo per la salute psico-fisica della gestante.
Diverso è il problema dell’accertamento del danno conseguente al mancato esercizio del diritto di scegliere se abortire: per la Corte di Cassazione non è ammissibile un danno in re ipsa, dunque il danno non può essere liquidato in via presuntiva, ma la situazione di grave pericolo per la salute psico-fisica della donna deve essersi tradotta in un danno effettivo.
Anche in riferimento al secondo motivo di ricorso (l’esistenza del “diritto a non nascere”, o del “diritto a non nascere se non sano”) vi è, nell’ordinamento italiano, un contrasto giurisprudenziale.
L’orientamento maggioritario afferma l’inesistenza di questo diritto (cfr. Cass. Civ. n. 14488/2004, n. 16123/2006, n. 10741/2009). Tuttavia, un altro orientamento è giunto a riconoscere la possibilità di essere risarciti, seguendo però un diverso (e molto criticato) iter argomentativo. Con sent. n. 16754/2012, infatti, la III sezione della Cassazione Civile ha “spostato” i termini del problema: a suo avviso, si deve ritenere che il danno al nato non sia costituito dalla lesione del “diritto a non nascere se non sano”, ma dal fatto stesso della nascita non sana, ossia dalla circostanza di vivere un’esistenza disabile, che comporta maggiori costi e sofferenze. In questo modo, la richiesta del risarcimento del danno diventa una richiesta di poter vivere meno disagevolmente la propria quotidianità, grazie alla somma corrisposta dal medico.
Le questioni che le Sezioni Unite si trovano ad affrontare a questo riguardo sono molteplici. In primo luogo, si pone il problema della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico, ancora non era persona (ossia il nascituro). Richiamando un precedente del 1993, le Sezioni Unite ricordano che, se sussiste un rapporto di causalità tra un comportamento colposo (anche anteriore alla nascita) e il danno cagionato al nascituro, quest’ultimo può agire per ottenere il risarcimento, una volta che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica. Dunque, la circostanza che il nato chieda il risarcimento per un fatto anteriore alla sua nascita non impedisce – in via di principio – che la wrongful life action sia accolta.
Bisogna però accertare qual è il contenuto del diritto che si considera leso (quindi in cosa consista il “danno”) e se esiste il nesso di causalità tra la condotta del medico e la produzione del danno. Proprio l’analisi di questi due aspetti porta la Corte a concludere che la wrongful life action non può trovare accoglimento all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.
In riferimento al primo profilo, è necessario chiarire cosa sia un danno: per la Corte il danno è una perdita di utilità. Per questo, se anche l’errore diagnostico ha impedito alla gestante di interrompere la gravidanza, non sembrano comunque sussistere i margini perché si possa intravedere la concretizzazione di un danno. In particolare, la malformazione genetica del feto non può essere configurata come danno perché la condotta del medico non ha portato a nessun peggioramento nella condizione precedente del feto stesso, che non si è mai trovato nella condizione di essere sano. Un danno si sarebbe prodotto se il bambino, anziché disabile, in presenza di una corretta diagnosi da parte del medico fosse nato sano. Tuttavia, anche se la diagnosi fosse stata corretta, la malformazione sarebbe stata comunque inevitabile, tanto da spingere la madre ad abortire. La situazione pregressa (rispetto alla quale valutare la diminuzione di utilità) sarebbe allora la non esistenza del bambino, ed è di tutta evidenza come effettuare un raffronto tra queste due situazioni (la non esistenza e la vita disabile) sia pressoché impossibile. Ne deriva che il danno dovrebbe essere identificato con la stessa vita disabile, mentre l’assenza di danno con la morte di chi propone l’azione (ossia il bambino) In questo modo, tuttavia, si giungerebbe ad una contraddizione insuperabile, perché l’assenza del danno sarebbe la non-vita, che tuttavia chiaramente non può essere considerata un bene giuridico: l’ordinamento italiano, infatti, tutela il bene giuridico “vita”, non la “non vita”.
Per rigettare la pretesa a titolo di wrongful life, le Sezioni Unite ricorrono inoltre all’ulteriore obiezione per la quale il riconoscimento della responsabilità del medico nei confronti del nato malformato per essere venuto al mondo imporrebbe, per coerenza logica, di ammettere anche la possibilità di un’azione di responsabilità nei confronti della madre che, in presenza delle condizioni prescritte dall’art. 6 della L. 194/1978 (sull’interruzione volontaria della gravidanza), abbia comunque portato a termine la gravidanza. Come argomento ad adiuvandum, la Corte richiama anche la giurisprudenza di ordinamenti diversi da quello italiano (es. USA, Germania Regno Unito), che sono giunti alle stesse conclusioni, rigettando parimenti le pretese risarcitorie basate sulla wrongful life.
In riferimento al caso di specie, la Cassazione ritiene privo di rilevanza l’orientamento adottato in altre pronunce giurisprudenziali (come Cass. n. 6735/2002, Cass. n. 14488/2004 e Cass. 16754/2012), che tende ad accordare il risarcimento del danno per la nascita malformata al nato, facendo leva sul progressivo allargamento della tutela risarcitoria prima al padre, poi ai fratelli del bambino. In tali sentenze, il risarcimento sarebbe giustificato dal fatto che la nascita di un bambino la cui disabilità non era conosciuta né prevedibile – e che, quindi, coglie impreparato il nucleo familiare – comporterebbe lo sconvolgimento delle dinamiche familiari, causando danni esistenziali nei confronti di chi vi appartiene. Quindi, se il padre e i fratelli del nato disabile hanno diritto al risarcimento, a maggior ragione anche il nato stesso dovrebbe vedersi riconosciuto tale diritto.
Tuttavia, le Sezioni Unite respingono tale orientamento: se si ammettesse questo argomento, infatti, si giungerebbe alla conclusione che la vita è apprezzabile solo se sussiste l’integrità psico-fisica. Dunque, ci sarebbe il concreto rischio di una deriva eugenetica.
Infine, le Sezioni Unite della Cassazione si esprimono in modo sintetico (ma comunque estremamente chiaro) anche sul tema del nesso di causalità tra la condotta del medico e la malformazione genetica del nato (il danno). Il precedente che esse implicitamente contestano è espresso nella sent. n. 16754/2012, più volte citata, dove la Corte di Cassazione ha ritenuto che, una volta accertata la volontà di abortire della gestante informata della malformazione del feto, vada ritenuto sussistente il nesso causale tra la carenza diagnostica e il danno consistente nella nascita malformata. Si avrebbe, infatti, l’equiparazione quoad effectum tra la fattispecie dell’errore medico che cagioni la malformazione o che non impedisca la sua insorgenza, scongiurabile invece in base a un intervento sanitario perito, e la fattispecie dell’errore medico che non ha evitato o ha concorso a non evitare la nascita malformata. Al contrario, le Sezioni Unite ritengono che tale causalità sia interrotta, sicché non pare sussistere alcun rapporto di causalità tra la condotta del medico e la produzione del (supposto) danno. Anche per questa via, allora, la richiesta di risarcimento non può trovare accoglimento, tanto che le Sezioni Unite affermano che, nell’ordinamento italiano, non esiste alcun margine per configurare l’esistenza di un “diritto a non nascere, se non sano”.

(m.g.b.)

ver: Fabrizio Piraino, «Nomina sunt consequentia rerum» anche nella controversia sul danno al concepito per malformazioni genetiche. Il punto dopo le Sezioni unite 22 dicembre 2015 n. 25767, in “Dir. Civ. Cont.”, 6 gennaio 2016 http://dirittocivilecontemporaneo.com/2016/01/nomina-sunt-consequentia-rerum-anche-nella-controversia-sul-danno-al-concepito-per-malformazioni-genetiche-il-punto-dopo-le-sezioni-unite-22-dicembre-2015-n-25767/