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Divorzio “imposto” ex lege e tutela delle unioni omosessuali

(Corte costituzionale, sentenza 170/2014)
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=170

[Son inconstitucionales las disposiciones normativas que prevén la disolución automática del matrimonio en el caso de rectificación registral del sexo por uno de los cónyuges en la ausencia de un marco legislativo para la protección de las uniones homosexuales]

Con la sentenza 170 dell’11 giugno 2014, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali gli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 – che stabilivano lo scioglimento automatico del matrimonio a seguito di rettificazione di sesso da parte di uno dei due soggetti coniugati – «nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi […] consenta, […] ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore» (Disp.).
La Corte ha giudicato corretta l’interpretazione delle disposizioni impugnate proposta dal giudice rimettente (la Corte di cassazione), secondo la quale esse stabiliscono, in caso di rettificazione di sesso da parte di uno dei due coniugi, una fattispecie di divorzio “imposto” ex lege, che non richiede, al fine di produrre i suoi effetti, una pronuncia giudiziale ad hoc, salva la presenza di figli minori della coppia coniugata, che nel caso di specie sono assenti. Del tutto prescindendo dalla volontà dei coniugi, è esattamente il carattere «automatico» dello scioglimento del vincolo matrimoniale (§ 5.2 c.d.), a determinare l’illegittimità costituzionale delle norme contestate.
Pur ritenendo il rapporto di coppia, a seguito di rettificazione di sesso da parte di uno dei due coniugi, non più inquadrabile nel modello matrimoniale (tanto che la Corte, per automatico effetto della rettificazione, ritiene i due coniugi non più sposati), il giudice costituzionale riconosce d’altra parte il «pregresso vissuto, nel cui contesto quella coppia ha maturato reciproci diritti e doveri, anche di rilievo costituzionale» (§ 5.1 c.d.).
La fattispecie peculiare che ha portato al giudizio incidentale di costituzionalità è stata ricostruita dalla Corte richiamando pedissequamente la propria precedente decisione in tema di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali (sentenza 138 del 14 aprile 2010). A giudizio della Corte, seppure la particolare situazione dei coniugi non può essere ricondotta al matrimonio, essendo questo disciplinato dal codice civile secondo il modello tradizionale del paradigma eterosessuale dell’istituto («la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente […] è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che “stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”» [§ 5.2 c.d.], essa è inquadrabile nella categoria delle «situazioni “specifiche” e “particolari”» in cui si trovano le coppie dello stesso sesso (annoverate dalla 138/2010 nelle «formazioni sociali» ove si svolge la personalità dell’individuo, ex art. 2 Cost.) «con riguardo alle quali – ha affermato il giudice costituzionale – ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo […] di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore» (§ 5.6, primo cpv., c.d.).
Secondo la Corte, nella fattispecie, così ricostruita, entrano in collisione due interessi contrapposti: da un lato, «l’interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio (e a non consentirne, quindi, la prosecuzione, una volta venuto meno il requisito essenziale della diversità di sesso dei coniugi)»; dall’altro, l’interesse della coppia – non più unita in matrimonio per la rettificazione di sesso di uno dei coniugi – alla preservazione della «dimensione giuridica del preesistente rapporto, che essa vorrebbe […] mantenere in essere» (§ 5.6, secondo cpv., c.d.). Poiché la normativa impugnata – dichiara la Corte – «risolve un tale contrasto di interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale alla non modificazione dei caratteri fondamentali dell’istituto del matrimonio, restando chiusa ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di suo bilanciamento con gli interessi della coppia» (§ 5.6, terzo cpv., c.d.), essa deve dichiararsi incostituzionale. La coppia (non più coniugata perché ora formata da persone dello stesso sesso) deve essere per la Corte in ogni caso «tutelata come “forma di comunità”, connotata dalla “stabile convivenza tra due persone”, “idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione”» (ibidem). Ma questa tutela non è attualmente garantita dall’ordinamento italiano, nel quale le unioni omosessuali non hanno finora trovato alcun riconoscimento giuridico.
La dichiarazione di incostituzionalità contenuta nella pronuncia in commento rappresentava, probabilmente, lo strumento migliore di cui la Corte, senza recedere da quanto aveva affermato nel suo precedente (138/2010), poteva disporre per realizzare due obbiettivi. Il primo obbiettivo era quello di sollecitare risolutamente il legislatore a provvedere a dare riconoscimento giuridico alle unioni omosessuali: sotto questo aspetto è apparso significativo il fermo monito rivolto al legislatore, che, secondo quanto ha dichiarato la Corte, deve assolvere questo compito «con la massima sollecitudine» (§ 5.6, quinot cpv., c.d.). L’altro obiettivo, che il giudice costituzionale ha voluto inequivocabilmente perseguire, era poi quello di orientare il legislatore verso una disciplina intesa non già all’estensione del matrimonio alle unioni omosessuali, bensì alla differenziazione di queste dalle coppie eterosessuali tramite l’introduzione legislativa di un istituto diverso dal matrimonio, che la Corte chiama, senza precisarne i contenuti, «convivenza registrata» (Disp.): sembra orientare verso questa ricostruzione delle intenzioni della Corte il fatto che nella motivazione la Corte affermi che è «compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio)» (§ 5.6, quinto cpv., c.d.). per dare riconoscimento giuridico alle coppie formate da persone dello stesso sesso.
E’ esattamente su questa strada che sta procedendo il Parlamento italiano con il DdL n. 2081, cosiddetto Cirinnà (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), in queste settimane in discussione nell’aula del Senato.
(f.m.)

Ver: P. Veronesi, Un’anomala additiva di principio in materia di “divorzio imposto”: il “caso Bernaroli” nella sentenza n. 170/2014, en la página web:
http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wpcontent/uploads/2013/05/0029_nota_170_2014_veronesi.pdf;
F. Mastromartino, Il giudicato costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso: quale discrezionalità per il legislatore italiano?, in “Diritto e questioni pubbliche”, 1, 2015, en la página web:
http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2015_n15-1/01_mono_08-Mastromartino.pdf