Categories
Blogs de la red

Eguaglianza tributaria e vincolo dell’equilibrio di bilancio

(Corte costituzionale, sentenza 10/2015)
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero=10

[Son inconstitucionales las disposiciones normativas que imponen una sobrecarga del impuesto sobre la renta para las empresas del sector petrolero y de la energía, ya que son incompatible con los artt. 3 y 53 Const., “bajo el perfil de la razonabilidad y de la proporcionalidad, por inadecuación de medios dispuestos por el legislador con respecto a la finalidad, en sí misma legítima, perseguida”. Sin embargo, en derogación del principio de retroactividad de las sentencias del Tribunal, para evitar “una grave violación de la estabilidad presupuestaria en conformidad con el art. 81 Const.”, los efectos de la declaración de ilegitimidad transcurren “desde el día siguiente al de su publicación”, o sea valen exclusivamente pro futuro]

La Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle disposizioni con le quali il legislatore aveva introdotto un regime fiscale differenziato per alcuni soggetti [art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133]. Si prevedeva in particolare una maggiorazione, pari al 5,5%, dell’imposta sul reddito per le sole imprese operanti in determinati settori, tra cui la commercializzazione di benzine, petroli, gas e olii lubrificanti, che nel periodo di imposta precedente avessero conseguito ricavi superiori a 25 milioni di euro.
La Corte ha dichiarato illegittime le disposizioni impugnate affermando – coerentemente al proprio costante orientamento – che, per quanto “non ogni modulazione del sistema impositivo per settori produttivi costituisc[a] violazione del principio di capacità contributiva e del principio di eguaglianza”, “ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione (§ 6.2 c.d.). E’ questo il caso, secondo la Corte, delle disposizioni oggetto del giudizio, ritenute illegittime in quanto in contrasto con gli artt. 3 (principio di eguaglianza) e 53 (dovere contributivo e progressività del sistema tributario) della Costituzione. Tuttavia, la Corte ha altresì imposto una limitazione temporale degli effetti della propria decisione, stabilendo che, in deroga alla regola della retroattività delle decisioni, la cessazione degli effetti delle disposizioni annullate valga esclusivamente pro futuro, in modo da scongiurare la violazione del principio dell’equilibrio di bilancio, sancito dal novellato art. 81 della Costituzione.
Dopo aver inquadrato la questione in oggetto – l’eguaglianza tributaria – richiamando la propria precedente giurisprudenza, nella quale la capacità contributiva “in un quadro di sistema informato a criteri di progressività” è qualificata “svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza” [sentenza n. 341 del 2000, ripresa sul punto dalla sentenza n. 223 del 2012; (§ 6.2 c.d.)], la Corte afferma che, per quanto “lo scopo perseguito dal legislatore” con le disposizioni impugnate appaia “senz’altro legittimo”, “i mezzi approntati” per realizzarlo non sono “idonei […] a conseguirlo” (§ 6.5 c.d.). L’imposizione di un regime fiscale speciale per le aziende che operano nel comparto petrolifero appare alla Corte, “astrattamente” e “in linea teorica” (§ 6.4 c.d.), giustificabile in forza delle peculiarità del settore, contrassegnato da uno “stampo oligopolistico” ed estraneo all’eventualità di una contrazione della domanda per effetto di un aumento dei prezzi, e a fronte di una congiuntura (presente all’epoca dell’entrata in vigore delle disposizioni impugnate) nella quale a una “grave crisi economica” ha corrisposto un “contemporaneo eccezionale rialzo del prezzo del greggio al barile” (§ 6.5 c.d.).
Se, prosegue la Corte, “temporanei interventi impositivi differenziati, vòlti a richiedere un particolare contributo solidaristico a soggetti privilegiati, in circostanze eccezionali” possono in astratto ritenersi costituzionalmente legittimi, non lo sono quelli realizzati dal legislatore con le disposizioni censurate. “Per fronteggiare una congiuntura economica eccezionale – afferma la Corte – si è […] stabilita una imposizione strutturale, da applicarsi a partire dal periodo di imposta 2008, senza limiti di tempo”: ciò che ha determinato “un conflitto logico interno alle disposizioni impugnate, le quali, da un lato, intendono ancorare la maggiorazione di aliquota al permanere di una determinata situazione di fatto e, dall’altro, configurano un prelievo strutturale destinato ad operare ben oltre l’orizzonte temporale della peculiare congiuntura” (§ 6.5.2 c.d.). Il “vizio di ragionevolezza” – accertato dalla Corte – risiede insomma tutto qui: nella “assenza di una delimitazione” dell’ambito di applicazione del tributo “in prospettiva temporale o di meccanismi atti a verificare il perdurare della congiuntura economica che ne giustifica l’applicazione” (§ 6.5.4 c.d.).
Dopo aver così argomentato, la Corte si sofferma a considerare i prevedibili effetti economici della propria decisione sostenendo che la restituzione delle somme incassate dallo Stato, per mezzo della maggiorazione tributaria introdotta dalle disposizioni censurate, comporterebbe un danno finanziario tale da pregiudicare seriamente altre esigenze costituzionali: “anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai sensi dell’art. 81 Cost.”, “uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime” (§ 8 c.d.). Sicché, nel caso di specie, la Corte ravvisa l’opportunità di imporre una limitazione degli effetti retroattivi della pronuncia d’illegittimità: una limitazione, secondo la Corte, “costituzionalmente necessaria allo scopo di contemperare tutti i principi e i diritti in gioco” (§ 8 c.d.).
A questo scopo, la Corte prima procede ad autoattribuirsi il potere di limitare gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale “sul piano del tempo”. Richiama al riguardo la prassi di altri tribunali costituzionali europei (segnatamente quello austriaco, tedesco, spagnolo e portoghese), in cui tale modulazione temporale si realizza “anche nei giudizi in via incidentale, indipendentemente dal fatto che la Costituzione o il legislatore abbiano esplicitamente conferito tali poteri al giudice delle leggi”, concludendone che “una simile regolazione degli effetti temporali deve ritenersi consentita anche nel sistema italiano di giustizia costituzionale” (§ 7 c.d.). Afferma poi che, nel caso di specie, l’esercizio di questo potere in deroga alla regola della retroattività (qualificato significativamente dalla Corte un “principio generale” risultante dagli artt. 136 Cost. e 30 della legge n. 87 del 1953) supera uno scrutinio di “stretta proporzionalità”, sussistendo “l’impellente necessità di tutelare uno o più principi costituzionali i quali, altrimenti, risulterebbero irrimediabilmente compromessi da una decisione di mero accoglimento e la circostanza che la compressione degli effetti retroattivi sia limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco” (§ 7 c.d.).
Così facendo, la Corte – forse malgrado le sue intenzioni – ha trasformato il principio costituzionale dell’equilibrio di bilancio elevandolo a principio fondamentale che, come tale, non solo si impone quale limite all’esercizio del potere legislativo ma che la stessa Corte costituzionale è tenuta direttamente ad osservare anche in assenza di alcuna interposizione legislativa: in altri termini, la Corte, con la pronuncia in commento, sembra aver ritenuto che anche le sue decisioni, alla stessa stregua delle leggi, debbano rispettare il vincolo costituzionale dell’equilibrio di bilancio.

(f.m.)

Ver: I. Massa Pinto, La sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015 tra irragionevolezza come conflitto logico interno alla legge e irragionevolezza come eccessivo sacrificio di un principio costituzionale: ancora un caso di ipergiurisdizionalismo costituzionale, en “Costituzionalismo.it”, 1, 2015; R. Bin, Quando i precedenti degradano a citazioni e le regole evaporano in principi, en la página web: http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/04/bin1.pdf

Categories
Blogs de la red

Non esiste un diritto a non nascere se non sani (inammissibilità della cd. “wrongful life action”)

(Cassazione Civile Sez. Un., sentenza 25767/2015)
http://www.cortedicassazione.it/cassazioneresources/resources/cms/documents/25767_12_2015.pdf

[En el campo de la responsabilidad médica por nacimiento no deseado, la Corte di Cassazione estableció los siguientes principios jurídicos: a) la madre tiene la carga de probar su voluntad de aborto, pero puede llevar esa carga por meras presunciones; b) el nacido con discapacidad no tiene derecho a actuar para el resarcimiento del daño de “vida equivocada”, ya que el ordenamiento juridico italiano no reconoce el “derecho a no nacer sino sano”].

Con la sentenza del 22 dicembre 2015, n. 26767, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione pongono fine a un contrasto giurisprudenziale che ha interessato l’ordinamento italiano soprattutto negli ultimi dieci anni, relativo alla cosiddetta “nascita indesiderata” ed al cosiddetto “diritto a non nascere se non sano” (quest’ultimo, a livello internazionale, è spesso conosciuto come “wrongful life claim”).
I casi che hanno dato origine a un vivace contrasto giurisprudenziale seguono tendenzialmente questo schema: si tratta di una richiesta risarcitoria, da parte di una coppia, nei confronti del medico (e/o della struttura sanitaria), ritenuto responsabile dei danni conseguenti alla nascita di un figlio disabile. Tale responsabilità sarebbe dovuta al fatto che il medico, pur non avendo causato direttamente la disabilità, non ha correttamente assolto il proprio obbligo informativo in relazione alla disabilità del feto o si è reso colpevole di non avere svolto una diagnosi corretta, reputando che il feto non presentasse anomalie. Dunque, egli avrebbe impedito alla madre di esercitare il proprio diritto di autodeterminazione, in quanto la donna aveva manifestato l’intenzione di interrompere la gravidanza, qualora il feto avesse presentato delle anomalie. Per questa ragione, la donna è legittimata a chiedere il risarcimento del danno (cd. wrongful birth action).
A questa pretesa risarcitoria si è tentato poi di affiancare quella dello stesso soggetto nato disabile, il quale lamenta il fatto stesso di dover vivere una vita disabile e, per questo motivo, ritiene responsabile il medico che ha rassicurato la madre sul fatto che il feto non avrebbe presentato anomalie. In breve: il nato disabile (in genere tramite i suoi rappresentanti legali, ossia i genitori) chiede di essere risarcito dal medico perché lo ha fatto nascere in quella particolare situazione, ossia disabile (cd. wrongful life action).
Così accade anche nel caso italiano in questione: i motivi contenuti nell’ordinanza di rinvio alle Sezioni Unite (ordinanza n. 3569) sono due. Il primo consiste nella richiesta di stabilire, nelle cause intentate per il risarcimento del danno da nascita indesiderata, a chi spetti l’onere della prova del danno sofferto; con il secondo si chiede alle Sezioni Unite di stabilire se il nato sia legittimato a chiedere il risarcimento per la nascita stessa, facendo valere il suo cosiddetto “diritto a non nascere”.
L’onere della prova che incombe sul danneggiato è particolarmente gravoso: infatti, la donna che ha partorito il bambino disabile deve dimostrare (i) la rilevante anomalia del nascituro; (ii) l’omessa o errata informazione da parte del medico circa il fatto che il feto fosse malformato; (iii) il grave pericolo della gravidanza per la propria salute psicofisica; (iv) il fatto che l’accertamento dell’esistenza di anomalie o malformazioni l’avrebbe indotta ad interrompere la gravidanza. In merito a quest’ultimo punto, in particolare, la madre è chiamata a provare il suo stato psicologico, la propria intenzione di abortire in presenza della disabilità del figlio: è chiaro come la prova sia particolarmente difficile.
Al riguardo, nell’ordinamento italiano si è registrato un contrasto giurisprudenziale: un primo orientamento (ad esempio, Cass. civ. n. 6735/2002; Cass. civ. n. 144889/2004; Cass. civ. n. 13/2010; Cass. civ. n. 15386/2011) fa riferimento al principio della regolarità causale, in base al quale è più facile che, scoprendo la presenza di gravi anomalie nel feto, una donna decida di interrompere la gravidanza, piuttosto che proseguirla. La gestante potrebbe allora semplicemente affermare, in giudizio, che si sarebbe avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza, se correttamente informata. Un accertamento più approfondito si renderebbe necessario solo nel caso in cui la controparte contestasse l’esistenza dei presupposti per interrompere la gravidanza (in particolare, la sussistenza di uno stato depressivo nella gestante). In tale ipotesi, infatti, non sarebbe sufficiente il semplice riferimento alle dichiarazioni della donna, ma si renderebbe necessario valutare la plausibilità di quanto affermato alla luce del criterio del “più probabile che non” (ossia: si dovrebbe valutare, in base ai dati della comune esperienza, quale sarebbe la scelta più probabile di una gestante che si trovasse in una situazione analoga a quella che si è verificata in concreto).
Al contrario, per un secondo orientamento (Cass. civ. n. 16754/2012; Cass. civ. n. 7269/2013; Cass. civ. n. 27528/2013, n. 27528 e Cass. civ. n. 12264/2014), affinché sia accordato il risarcimento è necessario che la donna abbia espresso una preventiva ed inequivocabile dichiarazione di volontà nell’interrompere la gravidanza in caso di malformazione del feto.
Nella sentenza n. 26767, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermano che la prova del fatto psichico (ossia l’intenzione di abortire della donna) grava in capo alla donna, la quale deve dimostrare sia che sussistano i presupposti di legge necessari per procedere all’interruzione della gravidanza, sia la propria volontà di avvalersi dell’interruzione di gravidanza in caso di anomalie nel feto, sia il danno subito a causa dell’impossibilità di esercitare il proprio diritto. Tuttavia, per le Sezioni Unite la prova può essere raggiunta anche attraverso “presunzioni semplici”, ossia tramite la prova di circostanze o di fatti dai quali si possa risalire all’esistenza di tale volontà. A questo proposito, le Sezioni Unite negano che l’accertamento delle malformazioni del feto determini automaticamente nella donna la volontà di abortire: è invece necessario che si abbia un concreto pericolo per la salute psico-fisica della gestante.
Diverso è il problema dell’accertamento del danno conseguente al mancato esercizio del diritto di scegliere se abortire: per la Corte di Cassazione non è ammissibile un danno in re ipsa, dunque il danno non può essere liquidato in via presuntiva, ma la situazione di grave pericolo per la salute psico-fisica della donna deve essersi tradotta in un danno effettivo.
Anche in riferimento al secondo motivo di ricorso (l’esistenza del “diritto a non nascere”, o del “diritto a non nascere se non sano”) vi è, nell’ordinamento italiano, un contrasto giurisprudenziale.
L’orientamento maggioritario afferma l’inesistenza di questo diritto (cfr. Cass. Civ. n. 14488/2004, n. 16123/2006, n. 10741/2009). Tuttavia, un altro orientamento è giunto a riconoscere la possibilità di essere risarciti, seguendo però un diverso (e molto criticato) iter argomentativo. Con sent. n. 16754/2012, infatti, la III sezione della Cassazione Civile ha “spostato” i termini del problema: a suo avviso, si deve ritenere che il danno al nato non sia costituito dalla lesione del “diritto a non nascere se non sano”, ma dal fatto stesso della nascita non sana, ossia dalla circostanza di vivere un’esistenza disabile, che comporta maggiori costi e sofferenze. In questo modo, la richiesta del risarcimento del danno diventa una richiesta di poter vivere meno disagevolmente la propria quotidianità, grazie alla somma corrisposta dal medico.
Le questioni che le Sezioni Unite si trovano ad affrontare a questo riguardo sono molteplici. In primo luogo, si pone il problema della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico, ancora non era persona (ossia il nascituro). Richiamando un precedente del 1993, le Sezioni Unite ricordano che, se sussiste un rapporto di causalità tra un comportamento colposo (anche anteriore alla nascita) e il danno cagionato al nascituro, quest’ultimo può agire per ottenere il risarcimento, una volta che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica. Dunque, la circostanza che il nato chieda il risarcimento per un fatto anteriore alla sua nascita non impedisce – in via di principio – che la wrongful life action sia accolta.
Bisogna però accertare qual è il contenuto del diritto che si considera leso (quindi in cosa consista il “danno”) e se esiste il nesso di causalità tra la condotta del medico e la produzione del danno. Proprio l’analisi di questi due aspetti porta la Corte a concludere che la wrongful life action non può trovare accoglimento all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.
In riferimento al primo profilo, è necessario chiarire cosa sia un danno: per la Corte il danno è una perdita di utilità. Per questo, se anche l’errore diagnostico ha impedito alla gestante di interrompere la gravidanza, non sembrano comunque sussistere i margini perché si possa intravedere la concretizzazione di un danno. In particolare, la malformazione genetica del feto non può essere configurata come danno perché la condotta del medico non ha portato a nessun peggioramento nella condizione precedente del feto stesso, che non si è mai trovato nella condizione di essere sano. Un danno si sarebbe prodotto se il bambino, anziché disabile, in presenza di una corretta diagnosi da parte del medico fosse nato sano. Tuttavia, anche se la diagnosi fosse stata corretta, la malformazione sarebbe stata comunque inevitabile, tanto da spingere la madre ad abortire. La situazione pregressa (rispetto alla quale valutare la diminuzione di utilità) sarebbe allora la non esistenza del bambino, ed è di tutta evidenza come effettuare un raffronto tra queste due situazioni (la non esistenza e la vita disabile) sia pressoché impossibile. Ne deriva che il danno dovrebbe essere identificato con la stessa vita disabile, mentre l’assenza di danno con la morte di chi propone l’azione (ossia il bambino) In questo modo, tuttavia, si giungerebbe ad una contraddizione insuperabile, perché l’assenza del danno sarebbe la non-vita, che tuttavia chiaramente non può essere considerata un bene giuridico: l’ordinamento italiano, infatti, tutela il bene giuridico “vita”, non la “non vita”.
Per rigettare la pretesa a titolo di wrongful life, le Sezioni Unite ricorrono inoltre all’ulteriore obiezione per la quale il riconoscimento della responsabilità del medico nei confronti del nato malformato per essere venuto al mondo imporrebbe, per coerenza logica, di ammettere anche la possibilità di un’azione di responsabilità nei confronti della madre che, in presenza delle condizioni prescritte dall’art. 6 della L. 194/1978 (sull’interruzione volontaria della gravidanza), abbia comunque portato a termine la gravidanza. Come argomento ad adiuvandum, la Corte richiama anche la giurisprudenza di ordinamenti diversi da quello italiano (es. USA, Germania Regno Unito), che sono giunti alle stesse conclusioni, rigettando parimenti le pretese risarcitorie basate sulla wrongful life.
In riferimento al caso di specie, la Cassazione ritiene privo di rilevanza l’orientamento adottato in altre pronunce giurisprudenziali (come Cass. n. 6735/2002, Cass. n. 14488/2004 e Cass. 16754/2012), che tende ad accordare il risarcimento del danno per la nascita malformata al nato, facendo leva sul progressivo allargamento della tutela risarcitoria prima al padre, poi ai fratelli del bambino. In tali sentenze, il risarcimento sarebbe giustificato dal fatto che la nascita di un bambino la cui disabilità non era conosciuta né prevedibile – e che, quindi, coglie impreparato il nucleo familiare – comporterebbe lo sconvolgimento delle dinamiche familiari, causando danni esistenziali nei confronti di chi vi appartiene. Quindi, se il padre e i fratelli del nato disabile hanno diritto al risarcimento, a maggior ragione anche il nato stesso dovrebbe vedersi riconosciuto tale diritto.
Tuttavia, le Sezioni Unite respingono tale orientamento: se si ammettesse questo argomento, infatti, si giungerebbe alla conclusione che la vita è apprezzabile solo se sussiste l’integrità psico-fisica. Dunque, ci sarebbe il concreto rischio di una deriva eugenetica.
Infine, le Sezioni Unite della Cassazione si esprimono in modo sintetico (ma comunque estremamente chiaro) anche sul tema del nesso di causalità tra la condotta del medico e la malformazione genetica del nato (il danno). Il precedente che esse implicitamente contestano è espresso nella sent. n. 16754/2012, più volte citata, dove la Corte di Cassazione ha ritenuto che, una volta accertata la volontà di abortire della gestante informata della malformazione del feto, vada ritenuto sussistente il nesso causale tra la carenza diagnostica e il danno consistente nella nascita malformata. Si avrebbe, infatti, l’equiparazione quoad effectum tra la fattispecie dell’errore medico che cagioni la malformazione o che non impedisca la sua insorgenza, scongiurabile invece in base a un intervento sanitario perito, e la fattispecie dell’errore medico che non ha evitato o ha concorso a non evitare la nascita malformata. Al contrario, le Sezioni Unite ritengono che tale causalità sia interrotta, sicché non pare sussistere alcun rapporto di causalità tra la condotta del medico e la produzione del (supposto) danno. Anche per questa via, allora, la richiesta di risarcimento non può trovare accoglimento, tanto che le Sezioni Unite affermano che, nell’ordinamento italiano, non esiste alcun margine per configurare l’esistenza di un “diritto a non nascere, se non sano”.

(m.g.b.)

ver: Fabrizio Piraino, «Nomina sunt consequentia rerum» anche nella controversia sul danno al concepito per malformazioni genetiche. Il punto dopo le Sezioni unite 22 dicembre 2015 n. 25767, in “Dir. Civ. Cont.”, 6 gennaio 2016 http://dirittocivilecontemporaneo.com/2016/01/nomina-sunt-consequentia-rerum-anche-nella-controversia-sul-danno-al-concepito-per-malformazioni-genetiche-il-punto-dopo-le-sezioni-unite-22-dicembre-2015-n-25767/

Categories
Blogs de la red

Rettificazione del sesso anagrafico ed effetti del matrimonio: (dis)continuità tre le sentenze n. 170/2014 della Corte costituzionale e n. 8097/2015 della Corte di Cassazione

Corte di Cassazione, sentenza n. 8097/2015
http://www.personaedanno.it/attachments/article/47570/Cass._8097_2015.pdf

[La Corte di Cassazione dictaminó que, tras la sentencia no. 170/2014 de la Corte costituzionale sobre el así llamado “divorzio imposto”, debe ser considerada como ilegítima la anotación automática de extinción de los efectos civiles del matrimonio de las recurrentes después de la rectificación registral del sexo de uno de los cónyuges, mientras el legislador no introduzca una disciplina de las uniones civiles que permita mantener viva la relación de pareja a través otra forma de unión registrada idónea para proteger adecuadamente los derechos y deberes madurados durante el matrimonio]

Con la sentenza n. 8097/2015 della Corte di Cassazione si conclude la vicenda giudiziaria sul caso Bernaroli che, nel 2014, aveva dato luogo alla pronuncia incidentale della Corte costituzionale sulla questione del c.d. “divorzio imposto” (Corte. Cost. n. 170/2014).
I coniugi Bernaroli si erano opposti all’annotazione della cessazione degli effetti civili del loro matrimonio eseguita dall’ufficiale di stato civile competente dopo che, in costanza di matrimonio, il marito aveva chiesto e ottenuto la rettificazione del proprio sesso anagrafico. Il Tribunale di Modena aveva accolto il ricorso della signora Alessandra (già Alessandro) Bernaroli e della moglie ma, su reclamo del Ministero dell’Interno, la Corte d’Appello di Bologna aveva poi rigettato la domanda delle ricorrenti. Investita della questione, la Corte di Cassazione aveva quindi sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge n. 164/1982 (con riferimento ai parametri costituzionali contenuti negli articoli 2, 3, 24 e 29 Cost.), nella parte in cui dispongono che la sentenza di rettificazione e di attribuzione di sesso provochi automaticamente la cessazione degli effetti civili, o lo scioglimento, del matrimonio.
Con sentenza di accoglimento n. 170/2014, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge n. 164/1982, per conflitto con l’articolo 2 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono la possibilità «di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore» (Disp. Si veda, in questo blog, F.M., Divorzio “imposto” ex lege e tutela delle unioni omosessuali).
Gli atti sono stati quindi ritrasmessi alla rimettente Corte di Cassazione e, nella perdurante assenza di un intervento legislativo, le ricorrenti hanno depositato atto di riassunzione della causa. Così, chiamata a dar seguito alla sentenza n. 170/2014 della Corte Costituzionale, la Cassazione ha accolto il ricorso e dichiarato illegittima l’annotazione sul registro dello stato civile della cessazione degli effetti civili del matrimonio delle ricorrenti.
Nella motivazione, la Cassazione ha argomentato in favore della tesi che ad essere colpita dalla declaratoria di illegittimità costituzionale non fosse «la norma mancante del riconoscimento di uno statuto costituzionalmente adeguato alle unioni tra persone dello stesso sesso»: il giudice di legittimità ha sostenuto infatti che «se l’intento della Corte [Costituzionale] fosse stato limitato a questo profilo sarebbe stata sufficiente una sentenza monito […] con un dispositivo di rigetto. Al contrario la Corte [Costituzionale] ha ritenuto che il meccanismo di caducazione automatica del vincolo matrimoniale nel sistema di vuoto normativo attuale fosse produttivo di effetti costituzionalmente incompatibili con la protezione che l’unione conseguente alla rettificazione di sesso di uno dei componenti deve, per obbligo costituzionale, conservare ex art. 2 Cost.» (p. 14).
La Cassazione ha ritenuto inoltre che, seppure qualificabile come additiva di principio, la sentenza n. 170/2014 dovesse ritenersi «autoapplicativa e non meramente dichiarativa» (p. 14) in quanto, ai sensi dell’art. 136 Cost., quando la Corte Costituzionale emette una pronuncia di accoglimento e dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma, tale norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Di conseguenza, ad avviso della Cassazione, «in attesa dell’intervento del legislatore, cui la Corte [Costituzionale] ha tracciato la via da percorrere, il giudice a quo è tenuto ad individuare sul piano ermeneutico la regola per il caso concreto che inveri il principio imperativo stabilito con la sentenza di accoglimento» (p. 15).
Nello specifico, la Cassazione ha affermato che «alla luce del chiaro dispositivo della sentenza della Corte Costituzionale», il proprio intervento non poteva che consistere nella temporanea «rimozione degli effetti della caducazione automatica del vincolo matrimoniale sul regime giuridico di protezione dell’unione fino a che il legislatore non intervenga a riempire il vuoto normativo, ritenuto costituzionalmente intollerabile, costituito dalla mancanza di un modello di relazione tra persone dello stesso sesso all’interno del quale far confluire le unioni matrimoniali contratte originariamente da persone di sesso diverso e divenute, mediante la rettificazione del sesso di uno dei componenti, del medesimo sesso» (pp. 15-16).
Secondo la Cassazione, la propria decisione sarebbe stata «costituzionalmente obbligata» e, d’altra parte, non avrebbe determinato «l’estensione del modello di unione matrimoniale alle unioni omoaffettive»: la conservazione in capo alle ricorrenti «dello statuto dei diritti e dei doveri proprio del modello matrimoniale» rimane, infatti, «sottoposta alla condizione temporale risolutiva della nuova regolamentazione indicata dalla sentenza» della Corte Costituzionale (p. 17.).
La decisione della Corte di Cassazione è apparsa tutt’altro che pacifica a parte della dottrina.
A questo proposito va segnalato, innanzitutto, che non vi è consenso sul fatto che le sentenze additive di principio della Corte Costituzionale possano considerarsi autoapplicative. Tali sentenze consistono infatti in pronunce che, pur dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni normative oggetto di giudizio nella parte in cui non prevedono qualcosa che dovrebbero prevedere, non formulano però espressamente la regola mancante ma, nell’impossibilità di individuare un’unica soluzione conforme alla Costituzione, si limitano invece ad indicare il principio generale a cui il legislatore dovrà conformarsi nel colmare la lacuna rilevata. In questa prospettiva, rimane controverso in dottrina se e in che termini le sentenze additive di principio siano suscettibili di immediata applicazione giudiziale.
Tali dubbi si ripropongono in termini particolarmente radicali quando, come nel caso della sentenza della Cassazione in commento, la decisione del giudice a quo si presti ad essere letta non tanto come meramente applicativa della pronuncia della Corte Costituzionale ma, piuttosto, come un vero e proprio “scatto in avanti” attraverso il quale si anticipano scelte di merito per nulla «obbligate», e riservate al legislatore.
Non manca peraltro, in dottrina, chi ritiene che la soluzione adottata dalla Cassazione si ponga per certi versi in conflitto con la sentenza n. 170/2014 della Corte costituzionale (la quale, è bene ricordare, ha categoricamente escluso la possibilità del permanere del vincolo matrimoniale a seguito della rettifica del sesso anagrafico di uno dei coniugi).
La sentenza n. 8097/2015 della Corte di Cassazione – come molte altre in materia di diritti delle coppie same-sex – continua quindi a fare molto discutere. Certo è, comunque, che il caso Bernaroli conferma ancora una volta come le pretese “indebite ingerenze” dei giudici in scelte politiche che dovrebbero spettare al legislatore trovino spesso la loro origine proprio nell’ostinata inerzia del legislatore stesso. O almeno così è certamente per la questione delle unioni civili, in relazione alla quale, da anni, il Parlamento non sembra in grado di raggiungere alcuna forma di accordo politico (tuttora il disegno di legge attualmente in discussione al Senato è oggetto di accesi dissensi). E questo non solo disattendendo il monito rivoltogli della Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 170/2014, ma anche ignorando la condanna che la Corte europea dei diritti umani ha inflitto all’Italia, nel luglio 2015, proprio in ragione dell’assenza di una qualsivoglia forma di tutela legislativa dei diritti delle coppie same-sex (Oliari et. al. c. Italia).
(p.p.)

Ver:
V. Baldini, Riflessioni a caldo sulla sentenza n. 8097/15: il giudice della nomofilachia smentisce la corte costituzionale in tema di matrimonio tra omosessuali? en www.dirittifondamentali.it;
R. Cataldo, La prospettiva de iure condito e de iure condendo della sentenza n. 8097/2015 della Corte di Cassazione sul matrimonio omosessuale sottoposto a condizione temporale risolutiva, en “Osservatorio costituzionale AIC”, n. 3/2015, http://www.osservatorioaic.it/;
M. Gattuso, La vittoria delle due Alessandre: le due donne restano sposate sino all’entrata in vigore di una legge sulle unioni civili, en “Articolo 29”, http://www.articolo29.it;
C. Panzera, Il discutibile seguito giudiziario dell’additiva di principio sul “divorzio imposto”, en “Forum di Quaderni Costituzionali Rassegna”, http://www.forumcostituzionale.it;
L. Ponzetta, Nota a margine della sentenza n. 8097/2015 della I sezione civile della Corte di Cassazione: il seguito della sentenza additiva di principio n. 170/2014, en “Forum di Quaderni Costituzionali Rassegna”, http://www.forumcostituzionale.it.

Categories
Blogs de la red

Divorzio “imposto” ex lege e tutela delle unioni omosessuali

(Corte costituzionale, sentenza 170/2014)
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=170

[Son inconstitucionales las disposiciones normativas que prevén la disolución automática del matrimonio en el caso de rectificación registral del sexo por uno de los cónyuges en la ausencia de un marco legislativo para la protección de las uniones homosexuales]

Con la sentenza 170 dell’11 giugno 2014, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali gli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 – che stabilivano lo scioglimento automatico del matrimonio a seguito di rettificazione di sesso da parte di uno dei due soggetti coniugati – «nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi […] consenta, […] ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore» (Disp.).
La Corte ha giudicato corretta l’interpretazione delle disposizioni impugnate proposta dal giudice rimettente (la Corte di cassazione), secondo la quale esse stabiliscono, in caso di rettificazione di sesso da parte di uno dei due coniugi, una fattispecie di divorzio “imposto” ex lege, che non richiede, al fine di produrre i suoi effetti, una pronuncia giudiziale ad hoc, salva la presenza di figli minori della coppia coniugata, che nel caso di specie sono assenti. Del tutto prescindendo dalla volontà dei coniugi, è esattamente il carattere «automatico» dello scioglimento del vincolo matrimoniale (§ 5.2 c.d.), a determinare l’illegittimità costituzionale delle norme contestate.
Pur ritenendo il rapporto di coppia, a seguito di rettificazione di sesso da parte di uno dei due coniugi, non più inquadrabile nel modello matrimoniale (tanto che la Corte, per automatico effetto della rettificazione, ritiene i due coniugi non più sposati), il giudice costituzionale riconosce d’altra parte il «pregresso vissuto, nel cui contesto quella coppia ha maturato reciproci diritti e doveri, anche di rilievo costituzionale» (§ 5.1 c.d.).
La fattispecie peculiare che ha portato al giudizio incidentale di costituzionalità è stata ricostruita dalla Corte richiamando pedissequamente la propria precedente decisione in tema di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali (sentenza 138 del 14 aprile 2010). A giudizio della Corte, seppure la particolare situazione dei coniugi non può essere ricondotta al matrimonio, essendo questo disciplinato dal codice civile secondo il modello tradizionale del paradigma eterosessuale dell’istituto («la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente […] è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che “stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”» [§ 5.2 c.d.], essa è inquadrabile nella categoria delle «situazioni “specifiche” e “particolari”» in cui si trovano le coppie dello stesso sesso (annoverate dalla 138/2010 nelle «formazioni sociali» ove si svolge la personalità dell’individuo, ex art. 2 Cost.) «con riguardo alle quali – ha affermato il giudice costituzionale – ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo […] di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore» (§ 5.6, primo cpv., c.d.).
Secondo la Corte, nella fattispecie, così ricostruita, entrano in collisione due interessi contrapposti: da un lato, «l’interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio (e a non consentirne, quindi, la prosecuzione, una volta venuto meno il requisito essenziale della diversità di sesso dei coniugi)»; dall’altro, l’interesse della coppia – non più unita in matrimonio per la rettificazione di sesso di uno dei coniugi – alla preservazione della «dimensione giuridica del preesistente rapporto, che essa vorrebbe […] mantenere in essere» (§ 5.6, secondo cpv., c.d.). Poiché la normativa impugnata – dichiara la Corte – «risolve un tale contrasto di interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale alla non modificazione dei caratteri fondamentali dell’istituto del matrimonio, restando chiusa ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di suo bilanciamento con gli interessi della coppia» (§ 5.6, terzo cpv., c.d.), essa deve dichiararsi incostituzionale. La coppia (non più coniugata perché ora formata da persone dello stesso sesso) deve essere per la Corte in ogni caso «tutelata come “forma di comunità”, connotata dalla “stabile convivenza tra due persone”, “idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione”» (ibidem). Ma questa tutela non è attualmente garantita dall’ordinamento italiano, nel quale le unioni omosessuali non hanno finora trovato alcun riconoscimento giuridico.
La dichiarazione di incostituzionalità contenuta nella pronuncia in commento rappresentava, probabilmente, lo strumento migliore di cui la Corte, senza recedere da quanto aveva affermato nel suo precedente (138/2010), poteva disporre per realizzare due obbiettivi. Il primo obbiettivo era quello di sollecitare risolutamente il legislatore a provvedere a dare riconoscimento giuridico alle unioni omosessuali: sotto questo aspetto è apparso significativo il fermo monito rivolto al legislatore, che, secondo quanto ha dichiarato la Corte, deve assolvere questo compito «con la massima sollecitudine» (§ 5.6, quinot cpv., c.d.). L’altro obiettivo, che il giudice costituzionale ha voluto inequivocabilmente perseguire, era poi quello di orientare il legislatore verso una disciplina intesa non già all’estensione del matrimonio alle unioni omosessuali, bensì alla differenziazione di queste dalle coppie eterosessuali tramite l’introduzione legislativa di un istituto diverso dal matrimonio, che la Corte chiama, senza precisarne i contenuti, «convivenza registrata» (Disp.): sembra orientare verso questa ricostruzione delle intenzioni della Corte il fatto che nella motivazione la Corte affermi che è «compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio)» (§ 5.6, quinto cpv., c.d.). per dare riconoscimento giuridico alle coppie formate da persone dello stesso sesso.
E’ esattamente su questa strada che sta procedendo il Parlamento italiano con il DdL n. 2081, cosiddetto Cirinnà (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), in queste settimane in discussione nell’aula del Senato.
(f.m.)

Ver: P. Veronesi, Un’anomala additiva di principio in materia di “divorzio imposto”: il “caso Bernaroli” nella sentenza n. 170/2014, en la página web:
http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wpcontent/uploads/2013/05/0029_nota_170_2014_veronesi.pdf;
F. Mastromartino, Il giudicato costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso: quale discrezionalità per il legislatore italiano?, in “Diritto e questioni pubbliche”, 1, 2015, en la página web:
http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2015_n15-1/01_mono_08-Mastromartino.pdf

Categories
Blogs de la red

Illegittimità costituzionale del divieto assoluto di fecondazione eterologa

(Corte Costituzionale, sent. 162/2014)

http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=162

[La prohibición absoluta de la fecundación heteróloga es ilegítima porque, siendo el resultado de un irrazonable balance de los intereses involucrados en la luz del objetivo perseguido por la Ley n. 40/2004, infringe los artículos. 2, 3, 29, 31 y 32 Cost.]

Con la sentenza n. 162 del 2014 la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità incostituzionale parziale di alcuni articoli della legge n. 40 del 2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita). In tal modo, nell’ordinamento italiano cade il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa per le coppie assolutamente sterili o infertili. Gli articoli dichiarati parzialmente incostituzionali sono: art. 4, comma 3; art. 9, comma 1; art. 9, comma 3; art. 12, comma 1.
La sentenza viene emessa in seguito a ricorso presentato dai Tribunali ordinari di Milano, Firenze e Catania, concordi nel ritenere che la legge in oggetto (e, in particolare, l’art. 4, comma 3) determini una irragionevole disparità di trattamento a danno delle coppie affette da sterilità o infertilità. I parametri costituzionali che i giudici remittenti assumono violati sono gli artt. 2, 3, 29, 31 e 32 Cost.
La Corte Costituzionale affronta la questione osservando, in via preliminare, come il divieto di fecondazione eterologa non sia da ritenersi considerato inderogabile all’interno dell’ordinamento italiano, almeno per due ordini di ragioni. Innanzitutto, il divieto è stato introdotto proprio dall’art. 4, comma 3 della legge n. 40 del 2004, mentre in precedenza la fecondazione eterologa era praticata in centri privati. Inoltre, questo divieto non consegue nemmeno ad obblighi derivanti da atti internazionali, dato che la sua eliminazione non viola i principi posti dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 (che vieta la procreazione medicalmente assistita [PMA] solo se a fini selettivi ed eugenetici).
La Corte prosegue osservando che, nell’impedire il ricorso alla PMA eterologa alla coppia che sia assolutamente sterile o infertile, l’art. 4, comma 3, censurato appaia privo di adeguato fondamento costituzionale, in quanto viola la libertà di autodeterminazione (riconducibile agli artt. 2, 3, 31 Cost.) e il diritto alla salute (art. 32 Cost.).
Nel caso in oggetto, la libertà di autodeterminazione è declinata all’interno della sfera familiare: la scelta di avere o meno un figlio riguarda la sfera più intima e intangibile della persona e – come tale – risulta incoercibile. Essa, al più, potrà essere limitata là dove si individuino interessi idonei ad essere con essa bilanciati, e le limitazioni siano ragionevolmente e congruamente giustificate dall’impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango. Nel caso di specie, ogni limitazione della scelta di divenire genitori appare censurabile.
La disciplina in esame incide, inoltre, sul diritto alla salute, che, secondo costante giurisprudenza è comprensivo – oltre che della salute fisica – anche di quella psichica. «In relazione a questo profilo – afferma la Corte – non sono dirimenti le differenze tra PMA di tipo omologo ed eterologo, benché soltanto la prima renda possibile la nascita di un figlio geneticamente riconducibile ad entrambi i componenti della coppia. Anche tenendo conto delle diversità che caratterizzano dette tecniche, è, infatti, certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA di tipo eterologo, possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia, nell’accezione che al relativo diritto deve essere data» (§ 7 c.d.). La Corte si premura di precisare come non si tratti di soggettivizzare la nozione di salute, né di assecondare il desiderio di autocompiacimento dei componenti di una coppia piegando la tecnica a fini consumistici, ma di tenere conto che «la nozione di patologia, anche psichica, la sua incidenza sul diritto alla salute e l’esistenza di pratiche terapeutiche idonee a tutelarlo vanno accertate alla luce delle valutazioni riservate alla scienza medica, ferma la necessità di verificare che la relativa scelta non si ponga in contrasto con interessi di pari rango» (§ 7 c.d.).
Queste premesse portano la Corte a ritenere che non sia possibile far cadere completamente il divieto di fecondazione eterologa. Tuttavia, ciò non impedisce alla Consulta di pronunciare una declaratoria parziale di illegittimità: infatti, dopo aver preso in considerazione i vari interessi che astrattamente potrebbero venire in rilievo, la Corte (qualificando la PMA eterologa come una species del genus PMA) giunge alla conclusione che l’assolutezza del divieto sia irragionevole e violi il canone di razionalità dell’ordinamento. E’ dunque consentita la fecondazione eterologa nei casi in cui a ricorrervi siano coppie assolutamente sterili o infertili.
(m.g.b.)

Ver: C. Casonato, La fecondazione eterologa e la ragionevolezza della Corte http://www.confronticostituzionali.eu/?p=1164
G. D’Amico, La Corte e il peccato di Ulisse nella sentenza n. 162 del 2014, http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/05/0028_nota_162_2014_damico.pdf

Categories
Blogs de la red

La Corte di Cassazione conferma il divieto di surroga materna dichiarando l’adottabilità del minore

(Corte di Cassazione. Sentenza 24001/2014)
http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/24001_11_14.pdf

[Debido a que la subrogación gestacional es contraria al orden público, el niño nacido como resultado de un contrato de subrogación concluido y actuado al extranjero no puede ser considerado como el hijo de la pareja cliente en el ordenamiento jurídico italiano y debe ser declarado adoptable]

Con sentenza n. 24001/2014 la Corte di Cassazione si è pronunciata per la prima volta sul tema della surrogazione di maternità.
Il caso riguardava due coniugi di Brescia recatisi in Ucraina per accedere a questa procedura di procreazione medicalmente assistita, che in Italia è vietata ai sensi dell’art. 12, 6 comma della l. 40/2004. A seguito di ricorso presentato dal Pubblico Ministero, il Tribunale di Brescia aveva accertato: a) che i coniugi non erano i genitori biologici del bambino; b) che la surrogazione di maternità è contraria all’ordine pubblico nell’ordinamento giuridico italiano, c) che, nel caso di specie, era stata violata anche la legge ucraina, secondo la quale almeno il 50% del patrimonio genetico deve provenire dalla coppia committente, d) che il minore doveva ritenersi in stato di abbandono, non essendo individuabili parenti che potessero prendersene cura. Per queste ragioni, il minore era stato dichiarato adottabile e se ne era disposto l’allontanamento dai coniugi bresciani, con collocamento presso altra coppia da scegliersi fra quelle in lista per l’adozione nazionale. La decisione del Tribunale era stata poi confermata dalla Corte di Appello di Bescia.
Ricorrendo in Cassazione, i coniugi hanno lamentato che, data la natura internazionalprivatistica della fattispecie oggetto di causa, i giudici di merito avrebbero dovuto fare riferimento alla nozione di ordine pubblico internazionale, inteso come l’insieme dei valori condivisi dalla comunità internazionale. Hanno denunciato inoltre che, in questa prospettiva, i giudici di merito hanno commesso un errore nel non considerare l’interesse superiore del minore ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, ratificata dall’Italia. Hanno sostenuto, infine, che, a prescindere dalla nullità del contratto di maternità surrogata, nel caso concreto era certamente interesse del minore rimanere nella famiglia in cui era stato accolto e accudito fin dalla nascita.
Questi rilievi dei ricorrenti hanno offerto al giudice di legittimità l’occasione di chiarire la propria posizione in merito alla definizione della nozione di ordine pubblico internazionale. Sul punto, la Cassazione ha ammesso che al fine di stabilire il contenuto della nozione si deve prendere in considerazione l’ordinamento nella sua interezza «ossia includendovi principi, regole e obblighi di origine internazionale o sovranazionale» (§ 3.1). D’altra parte, ha affermato che, in merito alla questione specifica della maternità surrogata, la valutazione del superiore interesse del minore è già stata predeterminata dal legislatore, «attribuendo la maternità a chi partorisce e affidando […] all’istituto dell’adozione, realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo delle parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico» (§ 3.1). La Cassazione ha quindi ritenuto infondato il ricorso e ha confermato le sentenze di merito.
Va segnalato però che il 27 gennaio 2015 la Corte europea dei diritti umani ha assunto una posizione opposta a quella della Cassazione, decidendo il caso Paradiso e Campanelli c. Italia. Anche in questo caso, un minore nato da madre surrogata (in Russia, questa volta) era stato dichiarato adottabile in ragione della contrarietà all’ordine pubblico della surrogazione di maternità. Pur non contestando la valutazione operata dalle autorità nazionali circa la contrarietà all’ordine pubblico della maternità surrogata, la Corte ha però sostenuto che il riferimento all’ordine pubblico non può servire da giustificazione per qualunque tipo di intervento, in quanto lo stato ha l’obbligo di tenere in considerazione l’interesse superiore del minore. In particolare, la Corte ha affermato che sottrarre un bambino al contesto famigliare nel quale è inserito costituisce una misura estrema, giustificabile solo in caso di pericolo immediato per il bambino stesso. Per queste ragioni, la Corte ha ritenuto che la decisione delle autorità italiane costituisse una violazione dell’art. 8 CEDU relativo al diritto alla vita privata e familiare e ha condannato l’Italia a risarcire i coniugi ricorrenti.
Resta comunque ancora da vedere se, e in che modo, la pronuncia della Corte di Strasburgo inciderà sugli effetti della sentenza della Cassazione in commento e, più in generale, sulla giurisprudenza della Corte di legittimità in materia di maternità surrogata e di dichiarazione di adottabilità del minore.
(p.p.)

Ver:
A. Palazzo, Surrogazione materna e interesse del minore, in “Libero osservatorio del diritto”, gennaio/marzo 2015, http://lodd.it/surrogazione-materna-e-interesse-del-minore/
B. Salomone, Contrarietà all’ordine pubblico della maternità surrogata e dichiarazione di adottabilità del minore, in “Diritto civile contemporaneo”, 3/2014.
A. Viviani, Il caso Paradiso e Campanelli ovvero la Corte europea contro i “pregiudizi” dei giudici nazionali, in ww.sidi-isil.org/sidiblog/?p=1294

Categories
Blogs de la red

Sulla giurisdizione civile in caso di crimini contro l’umanità commessi da uno Stato estero

(Corte costituzionale, sentenza 238/2014)
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=238

[Son inconstitucionales las disposiciones de ley relativas a las inmunidades jurisdiccionales de los Estados extranjeros en los juicios destinados a la compensación del daño sufrido por las víctimas de crímenes de guerra y crímenes contra la humanidad]

Con la sentenza n. 238 del 22 ottobre 2014 la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 14 gennaio 2013, n. 5. Dichiara altresì incostituzionale parte dell’art. 1 della legge 17 agosto 1957, n. 848 (legge di esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite). Giudica infine infondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla norma prodotta nell’ordinamento italiano mediante recepimento, ex art. 10 comma 1 della Costituzione, della norma consuetudinaria di diritto internazionale che garantisce l’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati.
La pronuncia è stata da più parti ritenuta epocale, in quanto la Corte aggiunge un nuovo tassello al confronto/scontro tra Corti nell’ambito della tutela multilivello dei diritti. Al contempo ribadisce con forza la propria posizione nella contrapposizione (nazionale) tra potere giudiziario ed esecutivo, da cui origina la vicenda, nata nel 2004. È opportuno ripercorrere brevemente le tappe principali di questa intricata vicenda. A partire dalla sentenza Ferrini (Cass. S.U. 5044/2004), in Italia si è andato affermando l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, nell’ipotesi in cui uno Stato ponga in essere condotte che si configurano come crimini internazionali, non si applica la consuetudine internazionale che prevede l’immunità di ciascuno Stato dalla giurisdizione civile degli altri, per atti compiuti iure imperii (ossia nell’esercizio della propria potestà sovrana). Nel caso di specie la Cassazione italiana ha escluso l’immunità giurisdizionale della Germania rispetto ad un’azione civile risarcitoria presentata da un cittadino italiano, il quale era stato deportato in Germania ed assoggettato al lavoro forzato durante l’occupazione tedesca di parte del territorio italiano nel corso del secondo conflitto mondiale. La Corte ha introdotto così un’eccezione all’applicabilità del principio generale.
L’orientamento espresso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione a casi analoghi (come Al Adsani e Jones) e la pronuncia della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012 (Germania v. Italia) sono, invece, di segno opposto. In particolare, la CIG condanna proprio l’Italia per violazione della norma internazionale sull’immunità giurisdizionale dello stato estero, disponendo che, promulgando l’opportuna legislazione (o con altro metodo a sua scelta), la Repubblica italiana dovrà fare in modo di rendere inefficaci le pronunce delle proprie autorità giudiziarie che violino l’immunità della Germania riconosciuta dal diritto internazionale. Esattamente per adempiere agli obblighi internazionali ed adeguarsi alla pronuncia della CIG (in base alla previsione dell’art. 94 dello Statuto Onu), nel 2013 il legislatore italiano emana la legge n. 5, che obbliga il giudice nazionale ad adeguarsi alla pronuncia del 3 febbraio 2012 negando la propria giurisdizione nella cognizione della causa civile di risarcimento del danno per crimini contro l’umanità commessi da uno Stato estero (la Germania) su suolo italiano. Nel 2014 il Tribunale di Firenze ne eccepisce l’illegittimità
Ad avviso della Consulta, le previsioni contenute nella legge impugnata sono in contrasto con uno dei principi supremi dell’ordinamento, la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali, assicurato dalla Costituzione italiana agli artt. 2 e 24 Cost., che non può essere sacrificato totalmente, se il bene concorrente è l’esercizio illegittimo della potestà di governo dello Stato straniero.
Per arrivare a questa conclusione, la Corte passa attraverso alcuni snodi significativi. Afferma innanzitutto la propria competenza a giudicare della causa di specie, nonostante la consuetudine censurata si sia formata anteriormente all’entrata in vigore della Costituzione. Così facendo, essa supera il dictum della sentenza n. 48 del 1979 (che aveva circoscritto il sindacato della Corte alle sole consuetudini posteriori all’entrata in vigore della Costituzione), attraverso il richiamo al dettato della sent. 1 del 1956, secondo il quale «l’assunto che il nuovo istituto della “illegittimità costituzionale” si riferisca solo alle leggi posteriori alla Costituzione e non anche a quelle anteriori non può essere accolto […]» (§ 2.1).
Stabilisce poi che non è fondata la questione di legittimità costituzionale della norma prodotta nell’ordinamento italiano mediante il recepimento della norma consuetudinaria di diritto internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati. Per la Corte, infatti, i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute, alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma in base all’art. 10, primo comma. È tale articolo ad imporre alla Consulta di accertare se la norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri, come interpretata nell’ordinamento internazionale, possa entrare nell’ordinamento costituzionale, oppure contrasti con principi fondamentali e diritti inviolabili.
Ad avviso della Corte, poichè il contrasto sussiste, va esclusa l’operatività del rinvio alla norma internazionale, perchè il diritto al giudice, riconosciuto dall’art. 24 della Costituzione, è un principio fondamentale dell’ordinamento italiano. Per tale motivo, la parte della norma sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati che confligge con i predetti principi fondamentali non è entrata nell’ordinamento italiano (§ 3.2). Da tale premessa discende, appunto, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’(inesistente) norma di adeguamento alla consuetudine internazionale prodottasi nell’ordinamento italiano.
Sono invece fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 3 della legge n. 5 del 2013, laddove obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della CIG del 3 febbraio 2012, e dell’art. 1 della legge di adattamento alla Carta delle Nazioni Unite (legge 17 agosto 1957, n. 848), laddove impone al giudice italiano di adeguarsi alle pronunce della CIG. Si noti che l’art. 1 da ultimo citato è illegittimo esclusivamente nella parte in cui il giudice nazionale è tenuto a dare attuazione alla pronuncia del 3 febbraio 2012, che gli impone di negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona. La ragione comune della declaratoria di illegittimità risiede nel fatto che, ad avviso della Consulta, il giudice non può essere obbligato a seguire l’orientamento espresso dalla CIG, se questa implica, in concreto, l’ineffettività della tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali. Questa tutela, infatti, costituisce uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale.
(m.g.b.)

Ver: P. De Sena, Spunti di riflessione sulla sentenza 238/2014 della Corte costituzionale, in “SIDIblog”, 30 ottobre 2014; L. Gradoni, Corte Costituzionale italiana e Corte internazionale di giustizia in rotta di collisione sull’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione civile, in “SIDIblog”, 27 ottobre 2014; A. Ruggeri, La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito interno di norma internazionale consuetudinaria (a margine di Corte cost. n. 238 del 2014), in “Consulta OnLine”, 17 novembre 2014.

Categories
Blogs de la red

Otra censura de la decretación de urgencia por vicio del procedimiento

(Corte costituzionale, sentenza 32/2014)
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=32

[Son constitucionalmente ilegítimas las disposiciones normativas que, introducidas en sede de conversión legislativa del decreto-ley, alteran el contenido normativo establecido en el decreto originario].

Con la decisión n. 32 del 12 abril 2014, el Tribunal constitucional ha declarado inconstitucional los arts. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-ley 30 diciembre 2005, n. 272 convertido, con modificaciones, por el art. 1, apartado 1, de la ley 21 febrero 2006, n. 49.
Declarando inconstitucional los artículos que introducen una nueva disciplina de los delitos en materia de estupefacientes, el Tribunal sigue una consciente estrategia – realizada en particular por la decisión n. 22 del 16 febrero 2012 – destinada a reconducir Gobierno y Parlamento al procedimiento legislativo ordinario como forma normal de legislación. La reciente decisión profundiza esta estrategia – por la cual el Tribunal obra una vez más no como juez de los derechos sino de los poderes – censurando, en todos sus perfiles, el procedimiento parlamentar usual que se ha impuesto en los últimos años. El Tribunal en efecto ha encontrado «varios elementos» (§ 4.5) de ilegitimidad constitucional por vicio de forma de las disposiciones normativas impugnadas.
En el terreno preparado por la sentencia 22/2012, la nueva decisión profundiza la doctrina del vicio de la ley de conversión por falta de homogeneidad en relación con los contenidos del decreto que convierte, aclarando que esa, en sus principios generales, se aplica también en el caso de decreto-ley «con contenido múltiple» (§ 4.1). Además, el Tribunal subraya la peculiaridad del vicio censurado, poniendo de relieve la razón a su fundamento: los tiempos demasiado limitados que a menudo caracterizan la aprobación de las leyes de conversión de la decretación de urgencia.
El vicio de homogeneidad consiste – según el Tribunal – en el defecto de «nexo funcional» entre las disposiciones del decreto-ley y aquellas introducidas en sede de conversión legislativa (§ 4). Con referencia especifica a su ordenanza 34/2013, el Tribunal vuelve a insistir en la función tipo de la ley de conversión, la cual, siendo «mirada a la estabilización» de una norma provisional, no puede abrirse a un contenido cualquiera en relación con esa ulterior (§ 4.1).
Es exactamente «de su connotación de ley a competencia tipo [que] derivan los limites a la posibilidad de enmienda del decreto-ley» (§ 4.1). «La requerida coherencia entre el decreto-ley y la ley de conversión» – afirma el Tribunal – sirve para evitar «el uso impropio» del poder legislativo asignado a las Cámaras por la Constitución: un uso impropio – explica – «que se realiza cada vez que, bajo la identidad formal de una enmienda, se introduzca un proyecto de ley que tenga la tarea de introducir en el ordenamiento una disciplina extraña, interrumpiendo el enlace esencial entre decreto-ley y ley de conversión, presupuesto por la secuencia delineada por el art. 77, secundo apartado, de la Constitución» (§ 4.1).
Por otro lado, el Tribunal nota la «absoluta evidencia» del vicio de homogeneidad sobre todo en el «alcance de la reforma» realizada por las disposiciones impugnadas y en la «delicadeza y complejidad de la materia» en que esas intervienen (la disciplina de los delitos en materia de estupefacientes), que evidentemente implica «delicadas decisiones de naturaleza política, jurídica y científica» y que por lo tanto – advierte el Tribunal – «habría requerido un adecuado debate parlamentar, posible cuando se hubieran seguidos los ordinarios procedimientos de formación de la ley, ex art. 72 de la Constitución» (§ 4.4).
La inadecuación del procedimiento en cambio elegido – ya muy condicionado por el respecto de tiempos particularmente rápidos – ha por otra parte aparecido al Tribunal intolerablemente exasperado por las formalidades del procedimiento adoptadas en concreto, debido a la imposición de la cuestión de confianza para la aprobación de la “maxienmienda”, propuesto por el Gobierno, que sustituye por entero el texto del proyecto de ley de conversión.
(f.m.)

Ver: A. Celotto, Uso e abuso della conversione in legge, en “Federalismi.it”, 1/2014.